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Se tutto va secondo i piani, tra pochi giorni la Francia diventerà il primo paese al mondo a trasformare l’aborto in un diritto costituzionale. Danielle Hassoun, 76 anni, ginecologa a Parigi da più di quarant’anni e tra le prime ricercatrici dell’aborto farmacologico, incrocia le dita, nella speranza che la legge passi. «Data la mia generazione e la mia età, non assisterò mai a qualcosa di meglio», dice sorridendo. Vede nella proposta di legge, che renderebbe molto più difficile intaccare il diritto, il coronamento di tanti anni di lotta femminista nel MLAC, Movimento libero aborto e contraccezione. Augusta Angelucci, 68 anni, ex-psicologa nel reparto aborto dell’Ospedale San Camillo di Roma, l’ha conosciuta proprio a una delle riunioni femministe che si tenevano a Parigi negli anni Settanta. Nonostante le due attiviste fossero mosse dagli stessi obiettivi, si trovano ora di fronte a contesti politici diametralmente opposti.
NOI E LORO
In Francia, la proposta di legge è già stata approvata dall’Assemblea nazionale, la Camera del Parlamento francese. Il prossimo passo spetta al Senato e poi al Congresso, un organo speciale composto da entrambe le camere, nel quale servirà una maggioranza del 60% per rendere ufficiale il cambiamento alla costituzione.
Il diritto all’aborto in Francia è attualmente garantito dalla cosiddetta “Legge Veil” del 1975, secondo la quale una donna può chiedere un’interruzione di gravidanza senza dover presentare ragione alcuna. Secondo i sondaggi, 8 francesi su 10 sono favorevoli alla costituzionalizzazione del diritto all’aborto. Nonostante il chiaro schieramento dell’opinione pubblica, molti deputati di destra, tra cui il presidente del Senato Gérard Larcher e la leader dell’opposizione Marine Le Pen, sostengono che il diritto all’aborto in Francia non sia in pericolo, e che quindi inserirlo nella costituzione sia innecessario. La senatrice dei Verdi Mélanie Vogel, a capo delle negoziazioni, non è d’accordo: «Bisogna proteggere un diritto quando non è minacciato. Ci si deve mettere la cintura di sicurezza prima di un incidente, dopo è troppo tardi».
GLI OBIETTORI DELLE ZONE RURALI
Dietro la proposta di legge, che lei per prima ha presentato al Senato, la repentina battuta d’arresto sui diritti riproduttivi oltreoceano, dove nel giugno del 2022 la Corte suprema degli Stati Uniti ha annullato la storica sentenza Roe v. Wade. Le preoccupazioni derivano anche dall’ondata di restrizioni al diritto all’aborto in Europa, insieme all’aumento dell’influenza politica dei movimenti pro-vita. Sviluppi che hanno spinto i legislatori francesi a volersi assicurare che simili passi indietro non si verifichino mai in Francia. «La vittoria dell’estrema destra in Italia ha dato ulteriori argomenti a chi in Francia dubitava del perché fosse necessario approvare questa legge», spiega Vogel, «d’altronde, una delle prime azioni legislative del Parlamento italiano è stata attaccare il diritto all’aborto».
La misura non risolve però i problemi di accesso all’interruzione di gravidanza nelle zone rurali, dove scarseggiano i centri specializzati e i dottori fanno più spesso uso della clausola di coscienza, che in Francia è doppiamente protetta dalla legge sulla sanità pubblica e quella sull’aborto. Contrariamente all’Italia, in Francia, dove una donna su cinque interrompe la propria gravidanza in un dipartimento regionale diverso da quello di residenza, non si raccolgono dati sulla percentuale di personale medico che ne fa uso. «C’è un problema di demografia medicale», dice la ginecologa Hassoun, «ci sono zone in cui non operano né medici né ostetriche».
Per quanto di natura simbolica, il disegno di legge francese costituisce una vera inversione di rotta rispetto al panorama italiano. A circa quarantacinque anni dall’approvazione della legge 194, in Italia, il diritto all’aborto manca ancora di piena attuazione. Augusta Angelucci è stata negli anni testimone dell’involuzione del diritto all’interruzione di gravidanza. «L’attuale governo lavora sul no all’aborto», dice. Dallo smantellamento dei consultori, ai finanziamenti ai centri pro-vita, la classe politica di destra ha avviato una vera e propria campagna contro l’aborto.
Dall’inizio della sua legislatura, la coalizione di maggioranza ha già presentato quattro proposte per limitare l’accesso all’aborto. In allerta, diverse associazioni sottolineano la già precaria condizione di coloro che vogliono esercitare il proprio diritto all’interruzione di gravidanza. Nel radar, gli ingenti fondi devoluti ai centri per la vita da varie regioni negli ultimi quattro anni.
IL QUADRO NELLE REGIONI ITALIANE
A marzo 2023, il Piemonte ha stanziato un milione di euro per il fondo per la vita nascente, dopo aver tagliato i finanziamenti ai consultori. Nel 2020, invece, il Veneto ha dedicato un totale di 9,8 milioni di euro ad interventi a sostegno della natalità. Anche in Umbria e nelle Marche, sono nate proposte a specchio per la cosiddetta implementazione della legge 194, che in realtà devolvono fondi ai centri pro vita. «È un grande controsenso», dice Silvana Agatone, la presidente di Laiga 194, l’associazione dei ginecologi non obiettori. «Da una parte si è fatta la legge 194 per volontà dei cittadini, dall’altra il governo fa esattamente il contrario, dispensando denaro al fine di bloccare questa possibilità». L’associazione Laiga 194 si batte in prima linea per proteggere dal mobbing i dottori che praticano l’aborto. Ma i dati rimangono scoraggianti. «Siamo molto discriminati», conclude la presidente.
Secondo una relazione del Ministero della Salute, circa il 64% dei ginecologi italiani si professa obiettore di coscienza. Ciò rende quasi impossibile abortire in alcune parti del paese. C’è in media una sola struttura dove poter interrompere una gravidanza ogni centomila donne in Campania, Molise e nella provincia autonoma di Bolzano.
Molto spesso, le lacune partono dal curriculum scolastico delle facoltà di medicina, dove si insegna solamente la pratica dell’aborto spontaneo, spiega la presidente di Laiga. Solo quattro regioni hanno elaborato un protocollo che regoli la pillola RU486, necessaria per l’aborto farmacologico, «per il resto è buona volontà del ginecologo», aggiunge Agatone.
In Europa, ci sono diversi esempi di come si possa effettivamente risolvere questo problema. In Francia, dal 1992, è obbligatorio che ogni ospedale disponga di un centro dedicato all’aborto per garantirne l’accesso. Il paese dispone anche di una legge che restringe l’attività dei movimenti pro-vita quando questa costituisce intralcio all’interruzione di gravidanza. «Io non ho nulla contro i centri della vita», dice la dottoressa Angelucci, «ma non devono depauperare i diritti di salute riproduttiva».
Deputati e attivisti francesi vedono nella progressiva erosione del diritto all’aborto in Italia l’esempio primo di quello vogliono evitare nel loro paese. «L’aborto non viene mai proibito completamente da un giorno all’altro, viene attaccato poco a poco: prima la contraccezione, poi i ritardi, poi i centri chiusi, e poi un giorno questo diritto non c’è più. E credo che questo sia davvero ciò che si vede in Italia», spiega la senatrice Vogel. «Dimostra che è necessario avere una protezione più forte per prevenire tutte le decisioni che i legislatori possono prendere che non attaccano direttamente la legge stessa, ma che in realtà impediscono alle persone di accedere a questo diritto fondamentale», conclude.
Dopo tanti anni di attivismo, ad Angelucci risulta difficile accettare che in Italia questi siano i risultati. La psicologa descrive gli anni Settanta come «un’epoca storica ricca di grandi trasformazioni sociali», con l’approvazione del divorzio e l’apertura dei consultori familiari. Ogni sabato, scendeva in piazza a Roma sullo slogan del no al compromesso storico. All’epoca, il movimento femminista era sostenuto dall’amministrazione della capitale stessa. Il presente è molto diverso. «Se si va a toccare la legge nell’attuale momento storico italiano, otteniamo solo ulteriori restrizioni», dice.